"Challengers"

L’arrivo di una pallina da tennis alla stazione di la Ciotat

Chiunque abbia mai avuto nozioni di storia del cinema, avrà ascoltato la storia – o la leggenda – del treno dei Fratelli Lumiére, che destò così tanto scaplore da far letteralmente fuggire gli ospiti dalla sala, spaventati che il treno potesse colpirli.

“L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” è un cortometraggio di cinquanta secondi, girato nel 1895, in cui un treno, ripreso diagonalmente, attraversa le rotaie fino a dare la sensazione di uscire dallo schermo.

Non è realmente il primo film della storia del cinema, e non sappiamo nemmeno se sia vero che gli ospiti fuggirono dalla sala, ma ci restituisce una metafora perfetta di ciò che dovrebbe essere, e fare, il cinema: un prodigio, un capolavoro di inquadrature, che ci tiene incollati alla poltrona dall’inizio alla fine, con le mani strette nei pugni e nell’attesa spasmodica di capire cosa succederà, colpendo di sorpresa più e più volte.

È così che probabilmente vi sentirete – certamente è come mi sono sentita io – per i centotrentuno minuti che vi incolleranno allo schermo durante la visione di Challengers, l’ultima pellicola di Luca Guadagnino, in scena per tutto il weekend.

Nella paura costante che quella pallina possa colpirvi veramente, e certe volte lo farà.

Sono uscita dal cinema tirando un sospiro di soddisfazione, esclamando “ahhh, questo sì che è un film!”

Di quelli dove tutto – la regia, il meraviglioso uso dei flashback, la colonna sonora (ipnotici i brani di Trent Reznor e Atticus Ross) – è fatto con l’obiettivo di accendere le emozioni.
Di quelli che ti fanno uscire dalla sala con tutte le tue aspettative tradite, i timori spazzati via da interrogativi ancora più pungenti.

Mi ero seduta sulla poltrona, con il mio cesto di popcorn gigante, temendo che la mia pressoché totale ignoranza a proposito di tennis avrebbe inevitabilmente rovinato la visione del film. Chiaramente, questo non è un film che parla di tennis.

Non solo.

E qui arriva la parte in cui diventa difficile continuare a scrivere senza cadere nella trappola dello spoiler, perché in un climax perfetto fatto di andirivieni fra passato e presente, sono disseminati così tanti di quegli indizi, che andare avanti e indietro nel tempo insieme ai protagonisti è insieme un piacere e una esaltante agonia.

“Il tennis è una relazione” e come tale è quasi sempre, che lo vogliamo o no, un gioco di potere, manipolazione e controllo, dove talvolta l’avversario è lo specchio di noi stessi. Una lotta continua affinché tutto questo resti in piedi fino al punto finale che aggiudica la vittoria.

Di che parla, quindi, “Challengers”? 

Parla di identità: chi siamo, in relazione all’altro? E che succederebbe se, per un attimo, smettessimo di identificarci nell’archetipo che questi ci ha assegnato?
Quanto siamo liberi di scegliere chi siamo, e cosa siamo disposti a perdere una volta deciso da che parte del campo vogliamo stare. 

Scelte, appunto. Un altro argomento cruciale.
C’è un divertentissimo saggio di Mark Manson dal titolo eloquente “La sottile arte di fare quello che c***o ti pare” che a un certo punto dice: “che tu te ne renda conto o no, scegli sempre per cosa sbatterti”.

E Tashi Duncan, personaggio indispensabile e inaspettatamente a metà fra il deus ex machina e il femminile sacro, ha scelto la sua causa senza interpellare gli altri due. E in un certo senso, così li salva.

Fun fact: la sceneggiatura originale di “Challengers” è di Justin Kuritzkes, marito di Celine Song, che ha diretto “Past Lives”. Un  parallelismo che non ha a che fare col film, ma come si può non fantasticare?

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